Gli sweepers di City Hunter 1 presentano :
Incubi di una notte di mezza estate
Stazione di Harajuku,
la passeggiata
" Guarda Clark, guarda quella bottega di souvenir! Oddiomio che scarpe
meravigliose in quel negozio d'abbigliamento! E quella sciarpa... "
Mika Kano stava trascinando l'uomo da quasi due ore, di vetrina in vetrina, per
la zona commerciale della stazione e la pazienza di Clark Logan aveva superato i
limiti di tolleranza umana.
Il Caposquadra aveva sperato di trascorrere la giornata in altro modo, magari
con una romantica passeggiata e un pranzetto a due in un localino esotico.
Difatti era la prima occasione in cui Mika si era lasciata convincere ad
abbandonare il bar per una "intera giornata", ma gli eventi erano
sfuggiti di mano al barbuto sweeper ed ora, i piedi gonfi e le braccia ingombre
di pacchetti e pacchettini, si ritrovava a far da "cavalier servente"
e a dover sopportare i vezzi (femmine!) della giapponese.
Prima c'era stato il tatuaggio - " Ti prego, Clark, e' troppo bello. Ne
voglio assolutamente uno... poi ti farò scoprire dove intendo farmelo
disegnare..." - Poi il concerto di musica operistica giapponese (una vera
tortura!), infine lo shopping nella confusione dell'ora di punta.
E fu proprio il silenzio improvviso ad attirare l'attenzione di Clark.
Come per magia la folla festante si fermò, congelata dall'apparizione di un
nutrito gruppo artificieri che avanzavano correndo.
E i gruppi di persone che incontrava il frenetico corteo non potevano fare a
meno di aprirsi al loro passaggio e di ammirare a bocca aperta gli uomini che
stavano sfilando dinanzi ai loro occhi.
Logan, per niente interessato a quello spettacolo, si era invece voltato verso
un gruppo di giovani e procaci studentesse.
" Ouch! "
Fu il gomito di Mika, (una forte botta allo stomaco) a far ritornare Clark alla
realtà - " Sei un porco! Ti si vede un filo di bava pendere dalla bocca! E
proprio quando sei insieme ad una ragazza! " -
In quello stesso istante una forte scossa, seguita da un assordante boato, fece
sussultare tutto e tutti.
"Emergenza! Emergenza! Tutti fuori!"
Le luci rosse lampeggianti e gli indicatori di percorso fluorescenti a malapena
foravano il denso fumo nei corridoi. La gente correva spintonandosi.
Dov'è Mika? Persa chissà dove...
"Devo tornare a cercarla..."
Ma il flusso delle persone è contrario alla direzione di marcia del Capitano,
che viene trascinato verso l'uscita.
Scintille dai pannelli che poi esplodono.
Giunge il turno di Clark per abbandonare la stazione... lo sweeper non vuole, si
dibatte... qualcuno allunga una mano e gli inietta un calmante... la sala perde
i contorni della nitidezza del reale.
Buio.
Polvere.
Un paio d'ore dopo, Clinica Kumosuzumegaoka...
"Sveglia eroe, è tutto finito"
Un sorriso accompagnò il risveglio di un confuso Clark Logan.
"Mika... stai bene? Cos'è successo?"
"Un falso allarme" rispose la giapponese, non trattenendo un leggero
tremore della mano "Ignoti terroristi hanno posto un ordigno al gas nella
metropolitana. Fortunatamente c'è stata solo l'esplosione, il gas era innocuo.
Probabilmente è solo un avvertimento... le forze di polizia sono in massima
allerta nel caso la cosa si ripeta."
"Alla faccia dell'avvertimento..." sorrise Clark massaggiandosi la
nuca contusa "La deflagrazione è stata fortissima..."
"Perché l'ordigno era proprio sotto i nostri piedi, alla fermata di
Harajuku. Il gas è invece stato trasportato attraverso i condotti di aerazione
lungo l'intera linea Yamanote. Pensa quante vittime avrebbe potuto fare!"
Il pomeriggio successivo all'evento trascorse comunque sereno per Clark, Mika e
per tutti gli sweeper in libera uscita.
Shinjuku, Tokyo.
Il giorno dopo.
Solo durante il pomeriggio Clark si ricordò del sogno che aveva fatto.
Non proprio un sogno, un terrificante incubo.
Gelida, una goccia di sudore percorse la schiena dell'americano, ma ancora più
sconvolgente il fatto che un'impressione stralunata era dipinta sulla faccia di
tutte le persone che incontrava.
Nessuno osava parlarne, ma molti, tutti quelli che si trovavano in un punto
qualsiasi della metropolitana di Tokyo al momento dell'esplosione, il giorno
prima, avevano poi avuto incubi notturni spaventosi.
Shinjuku, Tokyo.
Coffe House "Get Wild", quella sera.
" Ciao Clark, cosa ti posso servire? "
" Ciao Mika, qualcosa di forte, te ne prego... "
" Problemi? "
" No, solo un brutto sogno... "
" Non sei il solo a quanto pare... ecco, questo e' vero brandy, riserva
speciale..."
" Grazie Mika, ne ho proprio bisogno. "
Da uno dei tavoli giunse un richiamo: - " Clark, unisciti a noi! "
" Buonasera padre... si, vengo volentieri. " - e mentre parlava Clark
si accorse che una goccia del liquido ambrato si era rovesciata dal suo
bicchiere per il tremore nervoso della mano.
Lo accolse una serie di sguardi comprensivi: - " Non ti preoccupare
Clark," - continuo' il prete - " noi tutti abbiamo sognato qualcosa di
terrificante: e' l'effetto del gas di ieri, di nuova concezione. Sembra che
riesca a ripescare, dal fango del subconscio di chi lo respira, le paure più
nascoste. L'unica terapia e' raccontare il sogno, e berci su un buon bicchiere.
Signori, chi vuole iniziare?"
< Clark e la solitudine >
- Tre donne bellissime si stanno concedendo a me completamente, facendomi
provare sensazioni forse mai provate prima.
Sto dormendo beato, stremato dalla mia ultima prestazione quando, disturbato da
un leggero peso che mi si è poggiato sul torace, apro lentamente gli occhi.
Immediatamente penso ad una delle splendide donne con cui sono appena stato, e
faccio per accarezzarle i capelli.
Immaginate il mio stupore quando mi rendo conto che è solo una bambina!
Continuo a guardarmi attorno, incredulo, non riesco a capacitarmi di come una
bambina sia finita nel mio letto!
In quel mentre una porta si apre, e ne esce Mika avvolta in un asciugamano
bianco.
Mi saluta baciandomi, io voglio chiederle spiegazioni, ma mi ferma prima che
possa aprire bocca, dicendo che altrimenti quel piccolo angelo di nostra figlia
si sarebbe svegliata.
Inizio a sudare freddo, quella situazione mi è del tutto aliena e mi ci sento
buttato dentro contro la mia volontà.
Ad uno scherzo, penso.
Infilo in fretta e furia i vestiti, deciso più che mai a trovare una
spiegazione logica a quello che sta succedendo.
Arrivo in poco tempo al bar, tutto sembra normale ed ordino a Nadlisek ed a
Seiya di non disturbarmi per nessun motivo.
Chiuso nel segreto dell'ufficio di Mika telefono a Wolf, iniziamo a parlare del
più e del meno fin quando la conversazione non cade su due argomenti anomali:
il primo riguarda il mio matrimonio con Mika, celebrato da p. Clemente tra
l'entusiasmo generale lo stesso giorno in cui credevo di averla allontanata da
me, la Kano intendo.
Il secondo, più recente, mostra il mio impegno di padre durante la nascita di
mia figlia: la piccola Miyuki.
Sconvolto da ciò che ho sentito, di cui non ho memoria, faccio per uscire dallo
studio ma mi trovo circondato da decine di ragazze dall'aria non proprio
rassicurante. Queste, appena mi vedono, iniziano ad imprecare in
tutte le lingue conosciute e mi si riversano contro.
Io inizio a correre, non solo Nadlisek e Seiya non mi aiutano, ma si uniscono
alle inseguitrici dandogli man forte.
Attraverso un numero indefinito di strade fino ad arrivare all'ascensore che
porta al metrò, riesco a distanziare abbastanza l'orda di inseguitrici. Le
porte scorrevoli scivolano lentamente su loro stesse ed io le attraverso, felice
di esser riuscito a mettermi in salvo.
La felicità dura solo un attimo.
Cado nel vuoto.
Anzi, cadere non è il termine adatto perché sono ancora in piedi, poggiato su
un piano invisibile. Vengo avvolto nell'oscurità più totale, meglio.
Mi giro immediatamente, cercando la porta che ho appena attraversato, ma è
scomparsa.
Mi giro di nuovo, senza ragione, e scorgo una flebile luce in lontananza.
Disperato, decido di raggiungerla e corro di gran lena.
Ad un certo punto l'oscurità sotto ai miei piedi scompare trasformandosi in un
meraviglioso manto erboso.
Procedo spedito, il suono dei miei passi attutito dal folto e variopinto manto
erboso che ricopre la piccola collinetta, sulla cui cima si trova la mia
destinazione. Si tratta di un modesto edificio in pietra, il quale ad ogni metro
percorso va emergendo da dietro la piccola altura, stagliandosi contro il cielo
tinteggiato di carminio dall'imbrunire.
E' proprio come me lo ricordavo: il piccolo campanile con il segnavento spezzato
durante un temporale violento come non se n'erano mai visti prima, e neppure
dopo, e l'angusta cappella, grande appena per contenere una ventina di persone,
dov'ero stato battezzato. Mia madre mi aveva raccontato che era stata costruita
nel diciottesimo secolo e né il progresso né tantomeno le guerre e l'incedere
del tempo erano riusciti ad averne ragione.
Orgogliosa e testarda come le genti che pregavano tra le sue mura, lei era
ancora lì.
Mi fermo qualche secondo per ammirare da lontano quell'immagine per me
meravigliosa.
Sono sul punto di riprendere il mio cammino quando uno sfrigolio ed un movimento
appena percettibile al limitare del mio campo visivo mi induce a voltare la
testa alla mia sinistra. A poche centinaia di metri dalla posizione in cui mi
sono fermato, vedo un boschetto di pini. Gli alberi sono talmente vicini che
anche da così lontano è possibile
scorgere quanto buio fosse il sottobosco, come se la luce del sole arrivasse
fino alle cime delle piante per poi evitare impaurita di penetrarvi.
Aggrotto le sopracciglia a quella vista, scavando nella memoria per cercare di
confermare l'esistenza di quel particolare, inutilmente. Sono certo che non
c'era mai stato nulla di simile, nei pressi della chiesa.
Spinto dalla curiosità ed ignorando il piccolo fremito che mi percorre la spina
dorsale come monito, mi incammino verso la macchia d'alberi.
Un passo dopo l'altro, continuo ad avvicinarmi al boschetto.
Visto da vicino incute ancora più timore, dal momento che i tronchi si
innalzano contorcendosi nel tentativo di rubarsi l'un l'altro la luce. I rami più
bassi, privati dell'elemento fondamentale per sintetizzare il loro nutrimento,
sono spogli e avvizziti, dita scheletriche protese a ghermire gli stolti che si
fossero inoltrati nel bosco. Un odore di marciume si leva dal tappeto di foglie
morte ed ammuffite che ricopre il terreno.
Neanche quella vista ha il potere di fermarmi: appena i miei occhi si abituano
alla penombra, intravedo uno stretto e tortuoso sentiero e inizio a percorrerlo.
Un silenzio spettrale è la mia unica compagnia durante il tragitto. Dopo un
tempo impossibile a determinarsi, possono essere trascorsi minuti come ore,
secoli o anni, giungo in un grande spiazzo ricoperto di lapidi al cui centro si
trova un enorme cespuglio di rovi: un cimitero.
Un movimento attrae la mia attenzione verso quel cespuglio di rovi.
Con cautela, titubante, mi avvicino per osservare meglio.
Prima ancora che possa allungare la mano su di esso, noto che c'è qualcosa
nascosto sotto all'intrico di arbusti e spine.
Con cautela, prendo a farmi un varco con le mani attraverso quella matassa
contorta.
Sembra che ci sia una pietra, al di sotto di tutto.
Una pietra con un incisione sopra. Un nome, forse.
Riesco a scorgere solo poche lettere, ma quello che leggo mi spinge a strappare
con foga tutto ciò che mi capita a tiro, incurante delle profonde lacerazioni
che spine acuminate ed affilate come rasoi mi fanno alle braccia, trapassando
con facilità le maniche della camicia.
Infine, la vedo. Una pietra tombale. Con un nome scolpito in lettere eleganti.
Il mio. Clark Logan.
Laddove avrebbe dovuto esserci la mia foto non vi è altro che un foro ovale,
profondo pochi millimetri.
Alla fine era accaduto, o forse sarebbe dovuto ancora avvenire.
Ero morto, ed ero stato sepolto lì, in quel luogo buio ed oscuro, lontano dagli
occhi di tutti e dalla memoria di chiunque. Chi mi aveva sotterrato non si era
neanche preso la briga di mettere la mia foto, e quindi di me non
sarebbe rimasta nemmeno un'immagine a ricordarmi.
Lacrime di dolore prendono a scorrermi lungo le guance e non mi avvedo che la fossa non è ancora stata riempita e che si sta silenziosamente
avvicinando un corteo funebre. E' un corteo triste, ci sono solo due becchini
che trasportano la bara.
Provo a chiamarli, ma sembrano non accorgersi della mia presenza.
"Presto, amico, scaraventiamo questa bara in fondo alla fossa e
torniamocene a casa" dice uno dei due all'altro con la naturalezza di chi
fa queste cose tutti i giorni.
"Va bene" risponde l'altro "Ma cerchiamo di fare un buon
lavoro"
Il compagno ride di gusto.
"Chi vuoi che venga a lamentarsi, se non facciamo un buon servizio? Non lo
vedi? Quest'uomo è morto solo, senza amici, senza nessuno che versi una lacrima
per lui. E' già tanto che qualcuno si sia preoccupato di fargli avere un posto
qui..."
All'udire queste parole sento un fuoco di rabbia bruciarmi dentro, e mi
scaravento con tutta la forza che ho contro l'uomo, desiderando metterlo a
tacere.
Non riesco a colpirlo e, siccome mi sono sbilanciato, cado rovinosamente a terra
a pochi centimetri dalla buca che i due stanno iniziando a riempire col terreno.
Quando mi rialzo trovo davanti a me tre donne vestite a lutto che piangono sulla
mia tomba. Le riconosco: sono le donne che credevo di essermi portato a letto.
Una di loro alza lo sguardo dal suolo e mi fissa negli occhi, è la prima volta
che una donna riesce a stregarmi semplicemente con uno sguardo.
"Tu, Clark. Hai paura di restare solo. Vorresti amare una sola donna che ti
dia tutte le diverse sensazioni che hai provato giacendo con molte di loro...
Hai paura della morte, di essere seppellito senza che nessuno versi una lacrima
perché non ha mai provato amore per te, ma solo opportunismo per una perfetta
macchina del sesso e del piacere... la soluzione forse è sublimare?"
Vorrei ribattere quelle affermazioni, ma non riesco ad aprire bocca.
La donna mi spinge, facendomi precipitare nella fossa.
Urlo, ma nessuno sembra riuscire a sentirmi.
I becchini continuano incuranti a riempire il fosso col terreno, in poco tempo
mi trovo di nuovo immerso in quell'oscurità senza fine dalla quale sono appena
uscito .
Un sottile rivo d'acqua percorre la strettissima fossa. Lo sento sulla schiena
mentre sul torace sento la pressione di tonnellate di roccia.
Cambia la pendenza.
Scivolo sull'argilla.
Scivolo e alla fine mi incastro.
Mi manca il fiato.
Devo respirare.
Ma la roccia mi costringe.
Fatica.
Stanchezza mortale.
Sto morendo. Solo, al buio.
Sepolto vivo.
In fondo al pozzo senza fondo.
... Mi sollevo di scatto: il letto e' tiepido, la stanza in penombra e
tranquilla.
Chiudo gli occhi e provo a dimenticare.
Grumi di terra nel naso ed in bocca..
Sorrisero, il sogno era diventato parte dei ricordi di tutti e questo
sembrava già renderlo meno spaventoso.
Ora si guardavano, aspettavano il prossimo sogno, aspettavano che qualcun altro
aprisse la mente a loro, quasi come se questo riuscisse a creare un legame molto
forte: mentre si parla delle proprie paure si è a nudo, e quindi più
vulnerabili.
Ivan posò il suo bicchiere di Jack, il ghiaccio girò sul fondo e cominciò a
parlare:
< Wolf : Infanzia
rubata >
- Camminavo, non so dove ne perché, ero immerso
nei colori, sembrava di essere in un paradiso, non c'era un pavimento, camminavo
senza che le normali leggi della fisica avessero il sopravvento su di me,
l'unica cosa
che mi faceva capire che non ero fermo erano per l'appunto i colori, ma
cambiavano velocità, intensità, e direzione. Poi tutto diventa nero, comincio
ad avere paura, non è da me, ma quel buio è così denso che sembra togliermi
il respiro, comincio a correre, ma sono stanco, invece di andare in avanti
sembra che sto tornando indietro, corro più forte e guardo il pavimento, è
strano irregolare, sembra quasi solcato, come se ci fosse appena passato un
trattore ma mi sbaglio, ora capisco perché non riesco a camminare, sto girando
in tondo, sento un rumore metallico alle mie spalle, mi giro, continuo a
correre, guardo dietro e c'è una gigantesca colonna appuntita che mi insegue, anzi
sono io che vado verso di lei, una musica si spande in tutta la stanza, la
musica è assordante, la riconosco: è la
"Tempesta" di Beethoven. Guardo ancora il pavimento, è traslucido, ma
perfettamente nero, mi giro verso sinistra e ormai abituato al
buio vedo che sono su di un enorme corridoio rotondo senza pareti, sono su di un
disco, e la puntina sta per diventare il mio carnefice, ma poi luce, non riesco
a vedere bene, qualcosa alza la puntina mi afferra, un bambino,un enorme
bambino, io da piccolo, dice,o meglio dico parole in russo ma non le capisco,
sono assordanti, vorrei ribellarmi ma è troppo forte, mi poggia su di un letto,
troppo grande per me, o forse io troppo piccolo per il letto, e se ne va.
Scendo dal letto, la moquette sembra un campo di grano, o forse lo è, sono in
un immenso campo di grano, il sole alto e il cielo azzurro, un hotel in
lontananza, lo raggiungo, entro, il portiere ha gli occhi che gli escono fuori
dalle palpebre e gli pendono come una macchina che ha appena subito un incidente
contro un palo.
"Nella stanza 357 la attendono" salgo le scale, terzo piano, il
corridoio si stringe ancora, entro e nella stanza in penombra vedo tutti i miei
giocattoli di quando ero piccolo, un bimbo mi guarda, capelli biondi e grandi
occhi azzurri, sono ancora io, mi viene da piangere, una lacrima mi solca il
viso, il bimbo si alza, mi si avvicina, e nasconde una mano dietro la schiena,
io lo abbraccio, lui mi abbraccia ma nella mano nascondeva un coltello, mi
pugnala alla schiena senza smettere di abbracciarmi, mi sveglio, una lacrima mi
solca ancora il viso e il letto era sopra la mia
testa, ero caduto ed una pantofola mi premeva dietro la schiena-
Clemente svuotò il proprio bicchiere
mentre i commensali raccontavano i propri incubi.
Quando Ivan terminò il suo, un silenzio d'imbarazzo scese sulla compagnia.
"D'accordo mie cari, adesso credo proprio che tocca a me" esordì con
un finto sorriso ironico.
"Vi avverto però che non accetto eventuali risatine sotto i baffi..."
< p. Clemente : Intolleranza
>
"Ragazzo. Ero tornato ragazzo.
Stavo seduto sul vecchio tappeto rosso regalato a mia madre da una sua vecchia
amica,prima che questa partisse per trasferirsi in Asia. Quella donna non mi era
mai piaciuta per la sua aria grave e maliziosa.
Ero allegro, o almeno così mi sembrava d'essere.
Tutto intorno a me una marea di polverosi giochi che però non avevo mai
visto...
Vi erano bambole vestite con abiti religiosi,piccole costruzione legate tra di
loro con la forma di famose cattedrali, peluche con drappi color porpora, e uno
strano libro dalla copertina nera.
In mezzo a tutti questi strani balocchi regnava un oggetto ancor più strano....
Un libro, che sembrava avere vita propria...
Era di un colore nero spettrale e sulla copertina portava disegnato un viso
demoniaco.
Lo guardavo stupito ed impaurito, e lui rispondeva ridendo ai miei sguardi.
La porta.
Suonarono alla porta.
Mia madre, lasciati i fornelli, corse ad aprire, rimanendo di sasso nel vedere
chi fosse.
Un uomo si ergeva massiccio davanti a lei. Portava una lunga veste bianca,
correlata di una cappa nera.
Alle sue spalle un gruppo armato di soldati, in tenuta tardo-medievale.
Con un gesto violento, l'uomo diede uno schiaffo a mia madre iniziando ad
urlarle contro.
Mio padre era improvvisamente scomparso dalla scena.
Subito mi resi conto di cosa quell'uomo volesse.
Accusava mia madre di possedere quel libro.
Quel libro nero che si trovava adesso ai miei piedi.
Volevo gridare per avvertirlo che il libro era accanto a me; che mia madre non
era responsabile di nulla.
Nulla.
Non riuscivo a pronunciare nulla.
Non un suono, una parola.
E mia madre fu portata via."
Padre Clemente si versò da bere.
"E poi eccomi ,vestito anch'io in bianco, su un alto banco a guardare uno
spettacolo che si svolgeva in piazza.
Vi era una donna legata ad un palo, col viso sofferente ed avvolta dalle fiamme.
La stavano bruciando.
Ed io adesso ridevo interiormente. Non facevo nient'altro che guardare
soddisfatto della mia opera.
La donna era stata bruciata ed io ne godevo.
Le fiamme si alzavano alte insieme alle urla strazianti della vittima innocente.
Ed io ridevo.
Ridevo.
Gioivo, mentre con una mano accarezzavo il nero libro che nascosto si trovava
sulle mie ginocchia".
Seiya posò il suo bicchiere. Ce
n'era un altro accanto. Quello che aveva appena finito era il secondo. Aveva gli
occhi chiusi, aveva ascoltato Clark parlare senza guardare né lui né altro.
Aveva cercato di vivere quel sogno,
per dimenticarsi il suo. Non c'era riuscita... No, non c'era riuscita.
Aprì gli occhi quanto Clark finì. Lo guardò. E quando incrociò lo sguardo
del suo caposquadra gli sorrise. Era un sorriso dolce, quanto difficilmente ne
aveva fatti in vita sua se non a sua sorella.
"Clark..." commentò leggera "Ti prometto che la prossima volta
almeno non ti inseguirò. Anche se non ti prometto di difenderti dalle orde di
ammiratrici deluse"
Sorrise di nuovo. Un velo di divertimento, sottile come una maschera di vetro,
le si dipinse sul volto. Passò il dito sul bordo del bicchiere vuoto.
Distolto lo sguardo da Logan, passò rapidamente sui compagni radunati attorno
al tavolo.
"Scusate" riprese alzandosi "Vado a prendermi un'altra
birra"
Raggiunse il bancone e non dovette ordinare per vedersi servire il terzo
bicchiere. Buttò giù il primo sorso lì, in piedi, dando le spalle agli altri.
Buttò giù il secondo, chiudendo di nuovo gli occhi.
Sangue, un Lago di Sangue. Riaprì gli occhi di scatto. Il bar, c'era di nuovo
la Coffee House. Un brulicare di voci attorno a lei, un filo di musica. Un mesto
sorriso, un terzo sorso.
Si voltò verso il tavolo. Guardò i compagni da lontano. Uno ad uno.
Chi era lei per loro? Per tutta la gente che la circondava, sconosciuti di un
bar, chi era lei?
Chi era lei?
Ivan stava parlando. Gli altri lo stavano ascoltando. E lei... lei non era lì.
Non lo stava ascoltando. C'era qualcosa di sbagliato in questo, lo sentiva
intimamente. Ma le andava bene così. Non voleva sentire un altro sogno... un
altro incubo.
Non voleva ritrovare in esso, come in quello di Clark, bagliori del suo.
Non voleva. Un altro sorso, il bicchiere già mezzo vuoto. Non voleva rivedere
quel sogno.
Ma forse Clemente aveva ragione. C'era una sola cura.
Tornò dai colleghi. La seguirono tutti con lo sguardo nel suo sedersi di nuovo.
Rispose
a quelli sguardi con un sorriso.
Il sacerdote raccontò il suo sogno. Il Suo Incubo. Lei ascoltò anche lui.
In silenzio. Con gli occhi aperti. Fissandolo mentre la sue labbra si muovevano
formando parole che erano immagini. Cercando il coraggio in loro che si
confidavano. Cercando il coraggio di fare altrettanto.
Posò il bicchiere. Abbassò lo sguardo con esso. Fu un istante. Poi lo rialzò
con tranquillità. Sembrava serena. Voleva sembrarlo.
"Ero con mia sorella, ero andata a prenderla fuori dal lavoro. Tornavamo in
metropolitana. Stamattina mi ha svegliata angosciata per controllare di aver
sognato. Voleva controllare che fosse stato veramente un sogno, che io fossi
ancora lì. Mi ha travolta con la sua paura, con il mio doverla abbracciare e
consolare come se fosse una bambina. Mi ero quasi dimenticata il mio sogno"
Iniziò a giocare con le dita sul bordo dei due bicchieri vuoti. Era nervosa.
"Cos'hai sognato, Seiya?", chiese Clark.
< Daniels : Alone >
"Sangue. Sangue come acqua su cui camminavo.
L'orizzonte è vermiglio come la morte, sospeso su un desolato nulla. Sul
Sangue.
Una goccia. Mi voltai, mi voltai come se avessi avuto un corpo con cui voltarmi.
Una lacrima. Lucente, limpida come la lama di un pugnale. Una lacrima cadde nel
lago di sangue. Si perse in esso.
Corsi. Corsi verso il punto in cui era caduta. I miei piedi affondarono un poco
nel rosso mare. Un poco, solo un poco. Schizzi della linfa vitale di altri mi
sporcarono, linfa vitale di altri su di me che non esistevo.
Guardai. Guardai la tomba della lacrima dispersa. Cerchi concentrici
continuavano a segnare il lago.
Una mano. Una mano mi afferrò, una mano uscita dal Sangue, una mano di ossa e
sangue. Una mano mi strinse, strinse le carni che non avevo. Due mani. Tre mani.
Dieci mani.
Mi sentii trascinare verso il basso, iniziai ad affondare. Il Sangue mi voleva.
Tentai di ribellarmi al suo volere. Dieci, quindici mani. La forza mi
abbandonava, non avevo voce per gridare. Chiusi gli occhi, ma non avevo palpebre
che potessero impedirmi di vedere. Stavo affondando, sentivo il Sangue intorno a
me, dentro di me. Quindici, venti mani.
Volevo arrendermi. Non volevo arrendermi. Lasciarsi andare all'oblio e divenirne
parte. Ma l'istinto diceva che ciò non era ciò che doveva essere.
Cerchi concentrici. Turbata ancora la liquida superficie davanti a me, laddove
pochi istanti o secoli fa era caduta una lacrima. Tesi la mano, allungai un
braccio che sapevo di non avere. E quei cerchi erano concreti, erano solidi.
Erano appiglio. L'altra mano, l'altro braccio.
Avevo un sostegno.
Venti, trenta mani. Ma ormai la loro presa era instabile, mentre mi risollevavo.
Fui in piedi. In piedi su cerchi concentrici, io che non avevo piedi né occhi
per vedere cerchi concentrici. Ma mi vidi, vidi il confine del mio corpo. Lo
vidi ricoperto di Sangue, del sangue in cui stava affondando.
Posai la mano sul mio corpo. Non aveva consistenza, eppure esso era. Il palmo si
macchiò di Sangue. Lo guardai. Guardai il Sangue sulla mia mano, lo guardai
scorrere sulla pelle che un tempo dovevo pur aver avuto. Il Sangue
mi ricoprì, come un velo caldo ed opprimente. E vidi che quel sangue era mio,
come fosse mio. Perché io non ne avevo.
L'odore di quel Sangue io lo conoscevo. Ma non lo riconoscevo. Poi vidi una
figura. Prima indistinta, poi netta, sempre più veloce. Stava correndo, correva
verso di me. Era madido di sangue e sudore e correva disperato.
Altri venivano dopo, lo inseguivano. Ed io ero immobile, impossibilitata a
muovermi. Salda solo su Cerchi Concentrici. Gli sparavano, lo ferivano. Il
suo sangue cadeva. Ed io capii che quel lago di sangue era il sangue che lui
stava perdendo. Lo capii un istante prima di riconoscerlo. Era mio padre.
Gridai. Tentai di gridare, lo ricordo bene. Ma non ci riuscii. Muta ed immobile
lo vidi cadere, morto. Ucciso. E gli altri se ne andarono... mentre il suo
cadavere affondava nel Sangue... Scomparve in esso, scomparve insieme
a quel mare. Scomparvero i Cerchi Concentrici.
C'erano mura adesso, c'era un pavimento, c'erano persone e scrivanie. Il mio
vecchio ufficio, in America. I miei vecchi colleghi. I vecchi tempi.
Mi convinsi che era stato un sogno... solo un sogno. Tentai di raggiungere la
mia scrivania, ma uno di loro mi fermò. Mi chiese chi ero. Credetti stesse
scherzando, ma gli risposi. Divenne torvo e mi indicò una ragazza
seduta ad una scrivania. Mi disse che Quella era Seiya Daniels.
Non ero io. Tentai di ribattere qualcosa. Ma mi cacciarono via, dandomi della
pazza. Ero disperata, convinta che tutti loro fossero pazzi...
Gridavo... Mi buttarono fuori dalla porta, ma non c'era né il corridoio né la
strada. C'era la nostra stanza d'albergo. C'eravate voi, tutti lì. Mi avete
guardata straniti per un attimo. Poi mi son vista la pistola di Clark puntata
contro. E mi avete fatto la stessa domanda. E quando ho risposto, quando ho
detto che io ero Seiya Daniels, siete scoppiati a ridere. C'era una donna con
voi. E' venuta da me, mi ha fissata con odio. Ed ha detto che Lei era Seiya
Daniels... Ed io... io mi sentivo pugnalare dentro. Non ricordo neppure perché,
non ricordo come accadde. La pugnalai. Il mio coltello le penetrò lo stomaco da
parte a parte, sotto gli occhi di tutti voi. Cadde a terra senza un filo di
sangue. Io iniziai a sanguinare.
Scappai. Scappai da lì continuando a sanguinare, ma senza provare il minimo
dolore.
Scappai correndo fino a raggiungere casa dei miei nonni. Entrai e mi chiusi a
chiave dentro. Ero angosciata, disperata, distrutta. E non capivo. Non riuscivo
a capire. Nessuno... Nessuno mi riconosceva.
C'erano altre al posto mio, in ogni posto che io avessi mai vissuto. Per ogni
persona che avessi mai conosciuto. Ne ero certa. Poi ho sentito un rumore. Mia
sorella scese le scale, si trovò davanti a me che ancora restavo sulla soglia.
Si sarebbe spaventata nel veder tutto quel sangue, pensai.
Ma lei non si spaventò. Non si mosse. Semplicemente, mi guardò. E mi chiese
chi fossi... Avrei voluto morire... Urlai, lo ricordo perfettamente. Urlai.
E svanì tutto. La ferita sanguinava ancora, sempre più copiosa. Ed il sangue
ricopriva il nulla e lo rendeva un nuovo lago. Il Lago di Sangue era di nuovo
intorno a me, ma questa volta il sangue era il mio... E piano piano,
iniziò ad affiorare qualcosa sulla superficie. Teste. Tante teste. Teste, volti
tutti uguali. Ero io.
Ero sempre io. Mille e più me che affioravano dal Sangue. Ed erano tutte
morte... Lo erano, ne ero certa. Però uscirono da Sangue, restarono in piedi
sul Lago. E tutte iniziarono a ripetermi la stessa domanda... La stessa
voce, la mia voce, ripetuta all'unisono, all'infinito:
"Chi sei tu?"
Volevo scappare.
"Chi sei tu?"
Corsi via, tappandomi le orecchie.
"Chi sei tu?"
Ma ovunque andassi c'erano le altre me che ripetevano la stessa domanda.
"Chi sei tu?"
Poi vidi in lontananza i Cerchi Concentrici.
"Chi sei tu?"
Credetti di aver nuovamente trovato la salvezza.
"Chi sei tu?"
Posai il piede sui Cerchi Concentrici.
"Chi sei tu?"
E caddi. Caddi in un baratro che non c'era.
Caddi in una stanza vuota, scura. Ma muta. Muta.
"Chi sei tu?"
Le sentii...
"Chi sei tu?"
Erano altre voci, non era la mia.
"Chi sei tu?"
Erano ombre, ombre indistinte.
"Chi sei tu?"
Riconobbi alcune voci.
"Chi sei tu?"
Vecchi amici, vecchi colleghi.
"Chi sei tu?"
Nuovi amici, nuovi colleghi.
"Chi sei tu?"
Tutti. Tutti lì.
"Chi sei tu?"
Tutti a farmi la stessa domanda.
"Chi sei tu?"
Gridai. Gridai.
"Chi sei tu?"
Gridai di nuovo. Non volevo sentirli più.
"Chi sei tu?"
Stavo impazzendo. lo so. Forse ero già impazzita.
Poi il mio angelo mi ha svegliato. E mi ha chiamata per nome mentre mi diceva di
aver avuto un incubo. Mi ha chiamata Seiya..."
Un'ultima sorsata. Il terzo bicchiere fu vuoto. Chiuse gli occhi per un attimo.
Il Lago di Sangue era ancora lì... In fondo sapeva che ci sarebbe rimasto.
Riaprì gli occhi. Guardò i compagni. Sorrise con naturalezza.
"Stasera mi darete dell'alcolizzata, ma vado a prendermene un'altra...
Fortuna che ho sempre retto l'alcol molto bene."
L'alcol sì. I sogni un po' meno...
Nadlisek aveva ascoltato con attenzione i racconti
dei suoi amici ma nonostante credesse anche lui che la cosa migliore era
parlarne con gli altri una parte di sé non voleva farlo; non voleva più
ricordare, avrebbe preferito starsene zitto e cercare di annebbiare il cervello
con quell'ottima vodka che aveva davanti.
Per questo quando Seiya terminò il suo racconto un improvviso brivido scosse il suo corpo, era il suo
momento avrebbe dovuto cominciare a parlare ma la paura di non farcela era troppa.
Però si fece forza, diede un rapido sguardo alle facce degli amici e quasi senza accorgersene cominciò a parlare:
< Nadlisek : Follia Omicida >
"Un ragazzo, appena 17 anni e già il suo corpo è segnato da numerose cicatrici, indossa una divisa sudicia ridotta a brandelli; in mano un
kalashnikov e ai suoi piedi alcune bottiglie molotov. I suoi occhi sono senza vita, sono gli occhi di un morto, tuttavia hanno un qualcosa di
affascinante. Quel ragazzo sono io. Sono nella mia patria al tempo della guerra. Mi volto, accanto a me due corpi. Mia madre e mio padre, uccisi,
straziati. Mi faccio forza non voglio piangere, cosa potrebbero pensare di me? Vado avanti, alle mie spalle c'è solo morte e distruzione, davanti a me
continua la guerra. Mi ci butto in mezzo urlando e sparando come un matto... Un boato e poi buio,
silenzio... Sono morto... No, un grido mi sveglia, apro gli occhi, un'improvvisa luce mi acceca. Attendo un pò,
comincio a vedere qualcosa. Sono in un campo prigionieri, stanno torturando un uomo. Un soldato entra nella mi cella, si avvicina, estrae la
pistola...
Di nuovo buio... Mi risveglio e sono ancora nella mia cella, ho braccia e gambe sanguinanti, la lingua gonfia mi preme sul palato, la pelle sul petto
è completamente bruciata... Ho confessato tutto? No non posso, non
voglio... Devo uccidermi, ma come? No non posso morire, devo vivere voglio
vendetta... Ecco vengono a prendermi di nuovo, li sento... ancora buio... E poi luce sono nella cella, ho fame. Accanto a me un cadavere... no non
voglio,ma la fame è forte... lo addento, sto mangiando quel corpo, il corpo di un mio
simile... Basta devo farla finita..."
Nadlisek fece una pausa per bere un sorso di vodka
"Attenzione ragazzi ora viene la parte più brutta, mi vergogno al solo pensare di aver sognato una cosa del genere: Il ragazzo è cresciuto, ora ha
un viso pulito, un corpo in forma... Ma c'è qualcosa che non va. Indosso una divisa, ma non è la mia... quelli sono i colori dei nemici... sono ad una
riunione, tutti mi salutano inginocchiandosi. Un uomo si avvicina, mi abbraccia. Lo guardo: è l'uomo che ha ucciso i miei genitori e distrutto la
mia terra...."
Il racconto di Nadlisek si completò
in quel momento, non vi fu tempo per commentarlo che il tintinnio del campanello
della porta si fece udire, non senza scalpitare una sorta di inquietudine
generale.
"Ma chi diav..." esclamò Logan che gia aveva i nervi scossi...
Il suo sguardo si posò su un una specie di zombie con una sigaretta in bocca,
capelli scapigliati e occhiaie in cui ci sarebbe potuta stare la spesa di Mika (anche
se avesse vinto metà mercato, qualcosa voleva pur dirla) il tutto era avvolto
in una coperta... e nel fumo...
"Ma chi diavolo sei?"
Il mostro gettò la coperta rivelando la figura di Kaibara... lui che era sempre
stato patito della vita sana e del fisico tenuto in un certo modo ora aveva una
sigaretta in bocca... e non sembrava la prima.... tremolando si avvicinò al
banco versandosi un miscuglio di alcool.
Qualcosa di esplosivo...
Padre Clemente lo guardò con comprensione...
"Immagino abbia subito il nostro stesso effetto..."
Akira buttò giù il tutto in un colpo solo, roba da far rabbrividire pure il grande Wolf...
maestro degli alcolici...
"Che diamine Akira... racconta... che cosa ti è successo? Cosa hai
sognato?"
Akira si girò gettando la sigaretta a terra, implorando uno sguardo ad i compagni che si rivoltava in una
domanda...
"Secondo voi sono un assassino?"
< Kaibara : Innocenza >
"Era una delle solite domeniche.... pregavo... come tutte le volte, finita la
Messa mi trattenevo quella mezz'ora in più per parlare con Dio... e nel lavoro di spazzino se non si ha qualcosa a cui aggrapparsi è
quasi impossibile rimanere sani.... l'ancora era Cristo..."
Anche padre Clemente rimase un po' interdetto all'affermazione...
"Pregavo incessantemente... ero arrivato ad un punto che mi sentivo più spirito che
uomo... .quando un rombo interruppe la mia preghiera... mi alzai... sentivo che qualcosa mi chiamava fuori dalla
chiesa... mi allontanai e uscii dalle mura, trovando davanti a me una sorta di demone che
mi fissava e rideva...
"Tu sei un boia che spartisce morte e dolore... sofferenza e miseria..."
Quelle parole risuonarono nell'animo che prima calmo divenne triste e
vuoto...
Il demone mi saltò addosso e la sua forza era grande troppo per me... mentre stavo per soccombere una spada infiammata di una luce bianca mi apparve in
una mano, con la quale falciai il demone... staccandogli la testa...." lo
guardo dello sweeper si fece più intenso e nervoso "La testa rotolò a terra, ma continuava a
fissarmi...
"Hai ucciso pure me... non sei degno... mai lo sarai... sei perduto... come
me... anzi.. sei un demone che non ha mai smesso di avere fame..."
Il demone sparii, io mi guardai intorno... la chiesa non c'era più... era totalmente
buio... poi... mi ritrovai nella mia camera sotto le coperte del mio letto.
Ero tranquillo questa volta, mi alzai quando cominciai a sentire il pianto di un bambino... vagai per un po' per le stanze fino al giungere ad una stanza
nuova... con un sentiero, i suoi bordi erano tracciati dal sangue...
In ogni filo di esso vi era la vita trasmessa in un secondo al mio cuore... la vita di qualcuno che se ne era
andata... qualcuno di cui avevo contribuito al decesso...
Una morte che nessuno merita..."l'incursore si mise le mani nei capelli mentre si agitava
convulsamente "Seguendo il sentiero arrivai dal bambino, scoprendo che era una
femminuccia..." a quell'affermazione un sorriso sebbene molto vago si stampò
sul volto dell'incursore "Con tutta la dolcezza che avevo mi ci avvicinai... le dissi di stare calma... che tutto era finito...
Le presi la mano e lei si voltò, rivelando un volto scheletrico che mi gettò nel panico...
feci un salto all'indietro cadendo a terra mentre lei si dissolveva come
polvere... una voce cominciò ad echeggiare...
"Ti illudi di fare giustizia, ma fai solo il tuo interesse immergendoti nella vita degli altri e andandotene lasciandola svuotata, di ogni
sensazione e sentimento..."
Mi sentivo tirare giù, come se una voragine si fosse aperta sotto di me, mi alzai cercando di scappare, ma rimasi aggrappato a del terreno che mi
cominciò a franare fra le mani, sotto di me sentivo bruciare qualcosa e il calore era
tantissimo. Dopo poco riuscii ad aggrapparmi ad una fetta di terreno leggermente più solido e con un salto mi tirai fuori, vedendo che
sotto di me c'era della lava... nella quale si mescolava continuamente l'immagine di un teschio che
rideva...
Riuscii ad allontanarmi abbastanza saltando fra delle sporgenze uscite in quel momento, e saltando sopra ognuna di esse arrivai su uno scoglio...
Dove si ergeva una grande mano scheletrica....
Non so perché ma mi ci arrampicai sopra, stanco e distrutto cominciai a pensare, ma neanche il tempo di finire il più piccolo ragionamento che sopra
di me vidi qualcosa... che mi stava cadendo addosso...
Non volevo mollare, con tutte le mie energie mi lanciai via, ma il peso mi schiacciò... il terreno sotto di me cominciò a cedere,
mi sentii trascinare nel vuoto...
Mentre cadevo vedevo il mio passato, la guerriglia in Nicaragua e le esplosioni che mi circondavano, gli arti che volavano a seguito di una
deflagrazione...
E le urla degli uomini...
Che si combattevano solo perché pagati per farlo....
Per togliere la vita...
Tutto ciò mi passo dentro finché non giunsi alla fine di quel tunnel cadendo in una vasca d'acqua, mi sentii trascinare dentro il suo
contenuto...
Tentavo di venirne fuori con tutte le mie forze, ma più tentavo di venirne fuori più mi sentivo tirare
giù....
Finché finì le forze, sprofondai nelle profondità di quell'acqua che oramai era colorata della vita che avevo
tolto...
Di un mare rosso... vedendo un sole che oramai non aveva vita... "
Il suo sguardo era perso nel vuoto....
"Cosa credi di essere?... sei solo un carnefice..."
Il ragazzo continuò a pronunciare quella frase sottovoce, sebbene nessuno lo riuscisse a
sentire.
"Non sono un assassino..." un'altro bicchiere di quella robaccia
venne ingoiato dallo sweeper che cominciava a riprendere colore.
"Scusatemi...." si allontanò dagli altri per sedersi su una sedia appoggiando i gomiti sul
tavolino.
Vorrei solo poterlo credere...
Rikimaru aveva ascoltato i racconti
dei suoi compagni fino a quel momento, rimanendo in silenzio, formulando
mentalmente le parole adatte per raccontare il suo incubo.
Invece le parole gli uscirono come un fiume, sfuggendogli di controllo.
< Claren : Il passato >
<< Forse non tutti sapete che solo per metà le mie
origini sono giapponesi, mia madre era originaria di un paesino vicino a Tokyo,
e di lei non so niente. Conosco il suo volto grazie a delle foto che mio padre
conservava quando era in vita, e ho solo alcune sue lettere che scrisse a mio
padre quando si separarono per motivi collegati al lavoro di mio padre, l'unica
cosa che so di lei è che è scomparsa in questa città, ma pur non avendola mai
vista sento un forte legame con lei, il legame di un figlio che cerca nel
passato per trovare le sue origini e per essere completo.
Di lei ho sognato, camminavo in un cimitero, in mezzo a tombe prive di nomi, non
sapevo cosa ci facevo là, ma ero sicuro di dover trovare qualcosa, e mentre
camminavo ho trovato una solo lapide con una foto, vi era ritratto il
volto di mia madre.
Mi sono lasciato cadere in ginocchio sulla tomba, non volevo credere nella fine
della mia speranza, non volevo credere di aver fallito, fissavo quel volto, non
riuscivo a staccare gl'occhi da esso. Volevo scappare, ma non
potevo, qualcosa mi tratteneva le mani e i piedi, guardando le caviglie vidi che
intorno ad esse si erano avvinghiate delle rose, le cui spine mordevano le mie
carni, ma non sentivo il dolore, solo un senso di angoscia.
Poi un urlo, quella foto stava urlando il mio nome, il volto di mia madre stava
chiamandomi, la sua voce era lacerata dal dolore, non riuscivo....>>
S'interruppe, si alzò dirigendosi verso l'uscita del locale e voltando le
spalle agli altri disse:
<<Scusatemi. Clark, se avrai bisogno puoi contattarmi tramite
cellulare.>>
Poi uscì.
Tutti rimasero in silenzio, solo Seiya aveva notato una lacrima sulla guancia
del secondo in comando.
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