Gli sweepers di City Hunter 1 presentano :
Incubi di una notte di mezza estate
< Clark e la solitudine >
- Tre donne bellissime si stanno concedendo a me completamente, facendomi
provare sensazioni forse mai provate prima.
Sto dormendo beato, stremato dalla mia ultima prestazione quando, disturbato da
un leggero peso che mi si è poggiato sul torace, apro lentamente gli occhi.
Immediatamente penso ad una delle splendide donne con cui sono appena stato, e
faccio per accarezzarle i capelli.
Immaginate il mio stupore quando mi rendo conto che è solo una bambina!
Continuo a guardarmi attorno, incredulo, non riesco a capacitarmi di come una
bambina sia finita nel mio letto!
In quel mentre una porta si apre, e ne esce Mika avvolta in un asciugamano
bianco.
Mi saluta baciandomi, io voglio chiederle spiegazioni, ma mi ferma prima che
possa aprire bocca, dicendo che altrimenti quel piccolo angelo di nostra figlia
si sarebbe svegliata.
Inizio a sudare freddo, quella situazione mi è del tutto aliena e mi ci sento
buttato dentro contro la mia volontà.
Ad uno scherzo, penso.
Infilo in fretta e furia i vestiti, deciso più che mai a trovare una
spiegazione logica a quello che sta succedendo.
Arrivo in poco tempo al bar, tutto sembra normale ed ordino a Nadlisek ed a
Seiya di non disturbarmi per nessun motivo.
Chiuso nel segreto dell'ufficio di Mika telefono a Wolf, iniziamo a parlare del
più e del meno fin quando la conversazione non cade su due argomenti anomali:
il primo riguarda il mio matrimonio con Mika, celebrato da p. Clemente tra
l'entusiasmo generale lo stesso giorno in cui credevo di averla allontanata da
me, la Kano intendo.
Il secondo, più recente, mostra il mio impegno di padre durante la nascita di
mia figlia: la piccola Miyuki.
Sconvolto da ciò che ho sentito, di cui non ho memoria, faccio per uscire dallo
studio ma mi trovo circondato da decine di ragazze dall'aria non proprio
rassicurante. Queste, appena mi vedono, iniziano ad imprecare in
tutte le lingue conosciute e mi si riversano contro.
Io inizio a correre, non solo Nadlisek e Seiya non mi aiutano, ma si uniscono
alle inseguitrici dandogli man forte.
Attraverso un numero indefinito di strade fino ad arrivare all'ascensore che
porta al metrò, riesco a distanziare abbastanza l'orda di inseguitrici. Le
porte scorrevoli scivolano lentamente su loro stesse ed io le attraverso, felice
di esser riuscito a mettermi in salvo.
La felicità dura solo un attimo.
Cado nel vuoto.
Anzi, cadere non è il termine adatto perché sono ancora in piedi, poggiato su
un piano invisibile. Vengo avvolto nell'oscurità più totale, meglio.
Mi giro immediatamente, cercando la porta che ho appena attraversato, ma è
scomparsa.
Mi giro di nuovo, senza ragione, e scorgo una flebile luce in lontananza.
Disperato, decido di raggiungerla e corro di gran lena.
Ad un certo punto l'oscurità sotto ai miei piedi scompare trasformandosi in un
meraviglioso manto erboso.
Procedo spedito, il suono dei miei passi attutito dal folto e variopinto manto
erboso che ricopre la piccola collinetta, sulla cui cima si trova la mia
destinazione. Si tratta di un modesto edificio in pietra, il quale ad ogni metro
percorso va emergendo da dietro la piccola altura, stagliandosi contro il cielo
tinteggiato di carminio dall'imbrunire.
E' proprio come me lo ricordavo: il piccolo campanile con il segnavento spezzato
durante un temporale violento come non se n'erano mai visti prima, e neppure
dopo, e l'angusta cappella, grande appena per contenere una ventina di persone,
dov'ero stato battezzato. Mia madre mi aveva raccontato che era stata costruita
nel diciottesimo secolo e né il progresso né tantomeno le guerre e l'incedere
del tempo erano riusciti ad averne ragione.
Orgogliosa e testarda come le genti che pregavano tra le sue mura, lei era
ancora lì.
Mi fermo qualche secondo per ammirare da lontano quell'immagine per me
meravigliosa.
Sono sul punto di riprendere il mio cammino quando uno sfrigolio ed un movimento
appena percettibile al limitare del mio campo visivo mi induce a voltare la
testa alla mia sinistra. A poche centinaia di metri dalla posizione in cui mi
sono fermato, vedo un boschetto di pini. Gli alberi sono talmente vicini che
anche da così lontano è possibile
scorgere quanto buio fosse il sottobosco, come se la luce del sole arrivasse
fino alle cime delle piante per poi evitare impaurita di penetrarvi.
Aggrotto le sopracciglia a quella vista, scavando nella memoria per cercare di
confermare l'esistenza di quel particolare, inutilmente. Sono certo che non
c'era mai stato nulla di simile, nei pressi della chiesa.
Spinto dalla curiosità ed ignorando il piccolo fremito che mi percorre la spina
dorsale come monito, mi incammino verso la macchia d'alberi.
Un passo dopo l'altro, continuo ad avvicinarmi al boschetto.
Visto da vicino incute ancora più timore, dal momento che i tronchi si
innalzano contorcendosi nel tentativo di rubarsi l'un l'altro la luce. I rami più
bassi, privati dell'elemento fondamentale per sintetizzare il loro nutrimento,
sono spogli e avvizziti, dita scheletriche protese a ghermire gli stolti che si
fossero inoltrati nel bosco. Un odore di marciume si leva dal tappeto di foglie
morte ed ammuffite che ricopre il terreno.
Neanche quella vista ha il potere di fermarmi: appena i miei occhi si abituano
alla penombra, intravedo uno stretto e tortuoso sentiero e inizio a percorrerlo.
Un silenzio spettrale è la mia unica compagnia durante il tragitto. Dopo un
tempo impossibile a determinarsi, possono essere trascorsi minuti come ore,
secoli o anni, giungo in un grande spiazzo ricoperto di lapidi al cui centro si
trova un enorme cespuglio di rovi: un cimitero.
Un movimento attrae la mia attenzione verso quel cespuglio di rovi.
Con cautela, titubante, mi avvicino per osservare meglio.
Prima ancora che possa allungare la mano su di esso, noto che c'è qualcosa
nascosto sotto all'intrico di arbusti e spine.
Con cautela, prendo a farmi un varco con le mani attraverso quella matassa
contorta.
Sembra che ci sia una pietra, al di sotto di tutto.
Una pietra con un incisione sopra. Un nome, forse.
Riesco a scorgere solo poche lettere, ma quello che leggo mi spinge a strappare
con foga tutto ciò che mi capita a tiro, incurante delle profonde lacerazioni
che spine acuminate ed affilate come rasoi mi fanno alle braccia, trapassando
con facilità le maniche della camicia.
Infine, la vedo. Una pietra tombale. Con un nome scolpito in lettere eleganti.
Il mio. Clark Logan.
Laddove avrebbe dovuto esserci la mia foto non vi è altro che un foro ovale,
profondo pochi millimetri.
Alla fine era accaduto, o forse sarebbe dovuto ancora avvenire.
Ero morto, ed ero stato sepolto lì, in quel luogo buio ed oscuro, lontano dagli
occhi di tutti e dalla memoria di chiunque. Chi mi aveva sotterrato non si era
neanche preso la briga di mettere la mia foto, e quindi di me non
sarebbe rimasta nemmeno un'immagine a ricordarmi.
Lacrime di dolore prendono a scorrermi lungo le guance e non mi avvedo che la fossa non è ancora stata riempita e che si sta silenziosamente
avvicinando un corteo funebre. E' un corteo triste, ci sono solo due becchini
che trasportano la bara.
Provo a chiamarli, ma sembrano non accorgersi della mia presenza.
"Presto, amico, scaraventiamo questa bara in fondo alla fossa e
torniamocene a casa" dice uno dei due all'altro con la naturalezza di chi
fa queste cose tutti i giorni.
"Va bene" risponde l'altro "Ma cerchiamo di fare un buon
lavoro"
Il compagno ride di gusto.
"Chi vuoi che venga a lamentarsi, se non facciamo un buon servizio? Non lo
vedi? Quest'uomo è morto solo, senza amici, senza nessuno che versi una lacrima
per lui. E' già tanto che qualcuno si sia preoccupato di fargli avere un posto
qui..."
All'udire queste parole sento un fuoco di rabbia bruciarmi dentro, e mi
scaravento con tutta la forza che ho contro l'uomo, desiderando metterlo a
tacere.
Non riesco a colpirlo e, siccome mi sono sbilanciato, cado rovinosamente a terra
a pochi centimetri dalla buca che i due stanno iniziando a riempire col terreno.
Quando mi rialzo trovo davanti a me tre donne vestite a lutto che piangono sulla
mia tomba. Le riconosco: sono le donne che credevo di essermi portato a letto.
Una di loro alza lo sguardo dal suolo e mi fissa negli occhi, è la prima volta
che una donna riesce a stregarmi semplicemente con uno sguardo.
"Tu, Clark. Hai paura di restare solo. Vorresti amare una sola donna che ti
dia tutte le diverse sensazioni che hai provato giacendo con molte di loro...
Hai paura della morte, di essere seppellito senza che nessuno versi una lacrima
perché non ha mai provato amore per te, ma solo opportunismo per una perfetta
macchina del sesso e del piacere... la soluzione forse è sublimare?"
Vorrei ribattere quelle affermazioni, ma non riesco ad aprire bocca.
La donna mi spinge, facendomi precipitare nella fossa.
Urlo, ma nessuno sembra riuscire a sentirmi.
I becchini continuano incuranti a riempire il fosso col terreno, in poco tempo
mi trovo di nuovo immerso in quell'oscurità senza fine dalla quale sono appena
uscito .
Un sottile rivo d'acqua percorre la strettissima fossa. Lo sento sulla schiena
mentre sul torace sento la pressione di tonnellate di roccia.
Cambia la pendenza.
Scivolo sull'argilla.
Scivolo e alla fine mi incastro.
Mi manca il fiato.
Devo respirare.
Ma la roccia mi costringe.
Fatica.
Stanchezza mortale.
Sto morendo. Solo, al buio.
Sepolto vivo.
In fondo al pozzo senza fondo.
... Mi sollevo di scatto: il letto e' tiepido, la stanza in penombra e
tranquilla.
Chiudo gli occhi e provo a dimenticare.
Grumi di terra nel naso ed in bocca..
|