[Stml11] [8.07 - Margret - Cosmogonia]
Maddalena Duci
vampitrill a gmail.com
Lun 30 Apr 2018 14:49:02 CEST
Ecco il mio brano.
Spero vi piaccia.
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All’inizio vi erano solo il buio e il silenzio.
L’universo era freddo e vuoto e privo di vita. L’universo era un luogo
molto tranquillo, allora.
Poi la dea Kep’k aveva aperto quell’immensa oscurità e vi aveva sbirciato
dentro. A quel tempo, la dea era giovane e le era permesso di sbirciare in
tutti i molteplici universi che componevano il mondo. Come tante scatole,
alcune piene e altre vuote, popolavano la casa degli dei.
A Kep’k piacque molto quell’oscurità e penso che sarebbe stato molto bello
popolarla di luci e forme e colori, perché questi ultimi avrebbero mostrato
maggiormente quanto fossero meravigliosi il buio e il silenzio. Così la dea
Kep’k aveva allungato la mano fino al centro esatto dell’universo e dalle
sue dita era scaturita una scintilla, la prima.
Dopo ne erano seguite altre, molte altre. Lo spazio aveva cambiato forma,
il tempo si era ripiegato su sé stesso e poi si era espanso di nuovo. La
materia si era addensata ed era collassata, per poi addensarsi di nuovo.
Tutte le cose avevano avuto inizio.
Pianeti grandi e piccoli, soli, galassie, filamenti di materia che si
allungavano nell’oscurità e nel buio, che non erano mai stati così belli.
Per qualche tempo la dea Kep’k si compiacque di quel che aveva creato. Gli
altri dei apprezzavano la cura che aveva messo nel creare ogni cosa in
quella piccola scatola vuota.
Era stato un gioco molto bello, ma ormai era finito. La dea richiuse la
scatola e per molto tempo l’universo rimase sostanzialmente immutato.
Poi, un giorno, Kep’k fece ritorno. Aveva creato molti altri universi,
riempito molte altre scatole, ma quello era stato il primo e nel cuore
della dea occupava un posto speciale. Riaprì la scatola e vide che
l’universo era ancora bello bello e splendente come lei lo aveva lasciato.
Ma la dea ora era più vecchia e più saggia e vide anche che l’universo era
vuoto, molto più vuoto di prima. C’era la materia, certo, e c’era
l’oscurità resa ancora più bella dalla luce. Ma mancava qualcosa.
Così la dea creò i Kep.
I Kep erano un popolo pacifico e meraviglioso, curioso e pieno di desiderio
di esplorare. In breve tempo, sotto la guida della dea, i Kep si espansero
ovunque nell’universo, raggiungendo gli angoli più remoti della scatola.
Crebbero e si moltiplicarono e vissero per moltissimo tempo in armonia con
il creato e tra loro.
Poi un giorno, la dea Kep’k, come già era accaduto in passato, si stancò di
quell’universo e lo abbandonò. I suoi figli non capivano per quale motivo
se ne fosse andata, per quale motivo li avesse lasciati. La loro
disperazione fu terribile e profonda come l’oscurità stessa.
Poi due fratelli, Kepunk e Kepank, decisero di cercare la dea.
Il loro popolo all’inizio li derise e li schernì. Com’era possibile cercare
una dea, la madre di tutte le cose e di tutti loro? Come avrebbero potuto
due piccoli esseri, due Kep, trovare la creatrice del loro universo? Ma la
disperazione per l’assenza di Kep’k era tale e tanto grande che alla fine
quella parve essere l’unica possibilità. I Kep costruirono una nave, la più
bella e la più potente che il loro popolo avesse mai visto e la donarono ai
due fratelli, perché questi potessero trovare la dea.
Kepunk e Kepank partirono. Inizialmente i due fratelli collaborarono,
d’accordo sulla rotta da seguire. Ma col tempo e con la mancanza di
risultati della loro ricerca, si divisero. Kepunk credeva che la dea
potesse essere trovata solo continuando a cercare in lungo e in largo nella
spazio, Kepank riteneva invece che l’unico modo per trovare la madre fosse
cercarla all’interno del loro spirito.
Nessuno sa come e quando i due fratelli si divisero o se la loro ricerca
ebbe successo. Nessuno dei due fece più ritorno.
La loro scomparsa accrebbe le diatribe tra i Kep, il cui popolo si spaccò
in due fazioni, ognuna schierata con uno dei sue fratelli. La grandezza dei
Kep cominciò ad offuscarsi. Col tempo, altre creature popolarono
l’universo. Non erano figli della dea come i Kep, bensì degenerazioni di
quello che una volta loro stessi erano stati. Queste creature presero il
loro posto e i Kep rimasti decisero di andarsene. Non potevano lasciare
quell’universo senza l’aiuto di Kep’k e nel caso lei fosse tornata, così si
isolarono in una piccola zona di spazio, lontano dalle creature che avevano
infestato il loro universo, invisibili ai loro occhi, in attesa del ritorno
della madre. Quando lei fosse arrivata, loro sarebbero stati pronti.
*Luogo indefinito – Tempo indefinito*
Alla scomparsa di Hesse, Margret si lasciò sfuggire un’imprecazione
andoriana particolarmente colorita che strappò un’occhiata incredula al
timoniere, un mezzo sorriso ad Hana e lasciò perplessi tutti gli altri. La
donna poteva anche non aver capito il termine in se stesso, ma certamente
ne aveva colto il sentimento.
Il primo ufficiale si voltò come per contare i presenti e sincerarsi che
nessun altro se ne fosse andato. Quindi si voltò verso la betazoide.
“Consigliere, non percepisce più il capitano, immagino.”
“No, Signore. E’ sparito, come gli altri.”
“E si è portato via il pennarello,” aggiunse Hair, in tono piatto.
“Già. Sembra una specie di teletrasporto.”
“Potrebbe,” confermò l’ingegnere. “Ma non ho mai visto nulla del genere.”
“No, nemmeno io. Infatti.” Margret tornò a rivolgersi ad Hana. “Anche
questi grigi, come li ha chiamati lei, non sono qui al momento, giusto?”
“Giusto,” rispose il consigliere. Il suo tono era sicuro, ma aggrottò
leggermente le sopracciglia come se stesse sforzandosi di sentire qualcosa
in mezzo ad una gran confusione.
“Bene.”
Per un istante il primo ufficiale rimase immobile, le antenne tese in
avanti, in evidente riflessione sul da farsi.
“Bene,” ripetè poi. “Dato che luci sono accese, muoversi sarà meno
difficoltoso. Rimaniamo uniti e continuiamo il più possibile in linea
retta.” Il tono dell’andoriana era secco. Se c’era esitazione in lei, non
lo dava a vedere, quasi che l’idea di muoversi, il prossimo compito su cui
tutti loro erano focalizzati, le permettesse di escludere pensieri
pericolosi. Come il fatto che non avevano idea di dove andare, di cosa
cercare o di dove fossero.
La forza della sua autorità, comunque, li fece muovere.
“Consigliere, vorrei essere avvertita di ogni cambiamento. Se arriva
qualcuno, se qualcuno se ne va, voglio saperlo subito.”
La donna annuì una volta in senso di assenso.
“Bene, muoviamoci.”
Il gruppetto camminò in silenzio per un po’. Ogni tanto qualcuno appoggiava
qualche commento sulla qualità del materiale delle pareti o sulla
tecnologia dell’illuminazione, ma le chiacchiere furono estremamente
limitate. La situazione non era mai stata particolarmente favorevole e le
continue sparizioni dei loro compagni non contribuivano a migliorare lo
scenario. Inoltre, questi Kepank, o Grigi che dir si volesse, non si erano
dimostrati, almeno per il momento, affatto attendibili. Come se non
bastasse li avevano messi in guardia nei confronti dei Kepunk.
“E questi altri tizi, i Kepunk, chi sarebbero, fra l’altro?” domandò Hair,
a nessuno in particolare, con sconvolgente tempismo. “Mi ricordano Pinco
Panco e Panco Pinco e sembrano quasi altrettanto orridi.”
Tutti i non umani della combriccola parvero decisamente perplessi e Hair si
sentì in dovere di spiegare. “Oh, si tratta di personaggi letterari. Due
fratelli, da “Alice nel paese delle meraviglie”. La protagonista li
incontra dopo essere caduta nella tana del Bianconiglio.”
“Alice era molto piccola?” domandò Shnar.
“Nella norma,” rispose Glasgow, le sopracciglia leggermente inarcate.
“Perché?”
“Perché allora doveva essere la buca ad essere bella grossa.”
“Proprio come questa,” si inserì Margret.
Poco più avanti rispetto al gruppetto, il primo ufficiale era in piedi sul
bordo di quella che sembrava essere, in effetti, un buco nel pavimento del
corridoio. Non si trattava di una bottola, né di un danneggiamento del
pavimento. A ben guardare, non era nemmeno una vera buca. Semplicemente, al
centro esatto del corridoio, una parte del pavimento era stata sostituita
da una lastra di materiale trasparente simile al vetro. Al di sotto era
visibile parzialmente un’altra stanza. All’interno erano ospitate una serie
di capsule, simili ad unità di stasi.
Tre di esse ospitavano, immobili e ad occhi chiusi, Hesse, de Chirico e la
Alluso.
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